Cos'è la translucenza nucale, quando si esegue, quali sono i valori normali e cosa indicano i risultati. Una guida completa sullo screening prenatale del primo trimestre
La translucenza nucale è una specifica misurazione ecografica effettuata durante il primo trimestre della gravidanza, utilizzata per valutare il rischio che il feto presenti anomalie cromosomiche o malformazioni. Questo parametro si riferisce a una sottile raccolta di liquido situata nella zona posteriore del collo del feto, che può essere visualizzata in modo traslucido attraverso un’ecografia. L’esame non è invasivo e rappresenta una fase preliminare nello screening prenatale.

La translucenza nucale è una misurazione fondamentale nello screening prenatale del primo trimestre. Sebbene non fornisca una diagnosi definitiva, rappresenta uno strumento prezioso per individuare precocemente il rischio di condizioni cromosomiche e strutturali. L’integrazione con altri dati clinici ed ecografici consente una valutazione più completa, aiutando i futuri genitori a compiere scelte informate e, se necessario, a pianificare ulteriori approfondimenti diagnostici con l’aiuto dello specialista
Lo spessore di questa zona, se superiore ai valori ritenuti normali per l’epoca gestazionale, può indicare una maggiore probabilità di condizioni come la trisomia 21 (sindrome di Down), trisomia 18 (sindrome di Edwards), trisomia 13 (sindrome di Patau) e anche malformazioni cardiache o altre patologie genetiche. È fondamentale sottolineare che questo tipo di esame non è diagnostico: fornisce un’indicazione statistica, non una certezza.
La translucenza nucale è una zona priva di echi rilevabile tramite ecografia nella parte posteriore del collo del feto, visibile solo nelle prime settimane della gravidanza. Questo spazio appare come una sottile striscia trasparente, e la sua misurazione avviene attraverso una scansione ecografica eseguita in sezione longitudinale mediana. Il feto deve trovarsi in una posizione rilassata, con una lunghezza vertice-sacro (CRL) compresa tra 45 e 84 millimetri.
Quando si esegue e perché è importante rispettare i tempi?
La finestra temporale per l’esecuzione dell’esame è ristretta: tra la 11ª e la 13ª settimana + 6 giorni di gestazione. In questo periodo, infatti, la translucenza nucale può essere misurata in modo affidabile, poiché il liquido nella regione nucale è ancora presente ma non si è ancora riassorbito, come invece tende ad avvenire dopo la 14ª settimana.
La precisione della misurazione dipende anche dalla lunghezza del feto, che non deve superare gli 84 millimetri per garantire l’attendibilità del dato. Una misurazione effettuata troppo presto o troppo tardi rischia di perdere valore predittivo.
Come si effettua l’esame ecografico
L’analisi della translucenza nucale viene eseguita tramite un’ecografia, generalmente per via transaddominale. La sonda viene appoggiata sull’addome della donna incinta, e l’immagine ottenuta consente di osservare il feto in sezione sagittale. È essenziale che il feto sia in posizione di profilo per permettere una misurazione accurata da bordo a bordo della zona traslucida.
Nel caso in cui la visibilità sia compromessa – per esempio a causa della posizione del feto o della conformazione fisica della gestante – può rendersi necessaria un’ecografia transvaginale. L’intera procedura può durare dai 10 ai 45 minuti, in base alla collaborazione fetale e alla complessità dell’esame.
Generalmente, quando viene eseguita tra la dodicesima e la tredicesima settimana di gestazione, uno spessore compreso entro 2,5-2,8 mm viene considerato entro i limiti della norma.
Valori superiori a 3,0 mm sono invece interpretati come aumentati, poiché possono essere associati a un rischio più elevato di anomalie cromosomiche, come la trisomia 21, o di malformazioni cardiache congenite. Se lo spessore supera i 3,5 mm, il dato viene considerato significativamente alterato e si raccomanda l’esecuzione di ulteriori accertamenti. È importante chiarire che un aumento della translucenza non equivale a una diagnosi certa, ma rappresenta solo un indicatore di rischio che richiede approfondimenti.
Poiché la sola misurazione della translucenza nucale non basta per valutare il rischio complessivo di anomalie genetiche, l’esame viene integrato in uno screening combinato che include ulteriori parametri clinici. Tra questi vi sono l’età materna, i livelli di β-hCG libero e di PAPP-A nel sangue e alcuni segni ecografici aggiuntivi, come l’eventuale assenza dell’osso nasale fetale, il rigurgito tricuspidalico o anomalie nel flusso del dotto venoso.
Questi dati vengono elaborati tramite software specifici, validati a livello internazionale, in grado di fornire un rischio personalizzato, generalmente espresso sotto forma di rapporto (ad esempio, 1:100 o 1:1500).
Le principali linee guida internazionali, come quelle emanate da NICE, FMF e ISUOG, raccomandano di eseguire l’esame tra l’undicesima e la tredicesima settimana più sei giorni, con una lunghezza fetale (CRL) compresa tra 45 e 84 mm. Per garantire risultati affidabili, la procedura deve seguire criteri rigorosi: utilizzo di un adeguato ingrandimento ecografico, sezione sagittale mediana corretta e posizione neutra del feto. In presenza di NT > 3,5 mm, si raccomanda il ricorso a esami di secondo livello, come il test del DNA fetale (NIPT) o procedure diagnostiche invasive, in base all’epoca gestazionale.
| Settimana di gestazione | CRL consigliato (mm) | NT nella norma (mm) | NT a rischio aumentato (mm) | Azione raccomandata |
|---|---|---|---|---|
| 11+0 – 11+6 | 45–60 | ≤ 2,5 | > 3,0 | Considerare NIPT o esami invasivi se >3,5 mm |
| 12+0 – 12+6 | 61–74 | ≤ 2,6 | > 3,0 | Valutare test combinato; se >3,5 mm, approfondire |
| 13+0 – 13+6 | 75–84 | ≤ 2,8 | > 3,0 | Screening biochimico + NT; test avanzati se >3,5 mm |
Il test combinato e l’integrazione con altri parametri
La translucenza nucale raramente viene valutata da sola: è di solito inserita all’interno del cosiddetto test combinato, che comprende anche un prelievo di sangue materno (bitest): come detto precedentemente in questo prelievo si analizzano due ormoni, la free β-hCG (gonadotropina corionica umana libera) e la PAPP-A (proteina A associata alla gravidanza). Valori alterati di questi marcatori, in combinazione con la misurazione della translucenza nucale e l’età della madre, aumentano l’accuratezza dello screening.
Il test combinato è in grado di identificare fino al 90% dei casi di sindrome di Down, con un margine di falsi positivi intorno al 5%. La valutazione viene effettuata tramite un software sviluppato appositamente (come quello della Fetal Medicine Foundation), che calcola la probabilità di anomalie in base a diversi fattori materni e fetali.
Un valore di translucenza aumentato non implica necessariamente una patologia: può trattarsi di una variazione transitoria o associata a condizioni non genetiche come cardiopatie, displasie scheletriche o infezioni. D’altra parte, un valore nella norma non garantisce l’assenza di malattie.
Nel caso in cui il profilo di rischio calcolato risulti elevato (di solito oltre 1:250), il medico può proporre ulteriori accertamenti: tra questi la villocentesi o l’amniocentesi, esami invasivi che permettono l’analisi diretta del cariotipo fetale. In situazioni di rischio intermedio, si può optare per il test del DNA fetale (NIPT), un esame non invasivo effettuato con un semplice prelievo di sangue materno, ma preceduto comunque da un’ecografia dettagliata.
Oltre a stimare la probabilità di trisomie, la translucenza nucale permette anche di individuare precocemente possibili difetti anatomici, specialmente a carico del cuore. Se l’esame rileva un valore aumentato ma il test combinato risulta rassicurante, si consiglia spesso un’ecografia di secondo livello tra la 16ª e la 22ª settimana, con particolare attenzione al sistema cardiovascolare fetale.
La valutazione può anche essere affiancata da altri parametri ecografici, come la presenza o meno dell’osso nasale: studi dimostrano che tra il 60 e il 70% dei feti con sindrome di Down non presenta ossificazione nasale visibile in questa fase gestazionale. Una translucenza nucale nei limiti normali contribuisce a ridurre il rischio di anomalie cromosomiche, ma non lo annulla del tutto. Un valore aumentato non conferma necessariamente la presenza di una patologia, ma rappresenta un segnale che richiede ulteriori verifiche. Questo esame va considerato come uno strumento di screening, utile a stratificare il rischio e a supportare scelte informate in ambito prenatale.

